sabato 22 novembre 2008

Cosa significa radicalizzarsi


Il movimento degli studenti ha riportato nelle università la discussione politica, svegliando una generazione dal torpore in cui sembrava assopita. Il movimento ha manifestato in questi mesi la sua “irrappresentabilità”: non esiste forza politica in cui la protesta negli atenei si identifichi, le identità dei partiti continuano a sembrare lontane dalle rivendicazioni degli studenti. Nelle università, infatti, si prova un disagio diffuso, sentito quotidianamente dalle figure che al suo interno vi operano, e nessuna ricetta generale sembra rispondere pienamente alla molteplicità dei temi del movimento.

Il percorso di riforma dell’università degli ultimi quindici anni, con il pretesto di avvicinare lo studio al mercato del lavoro, ha creato un modello di formazione frammentario e disorganico: l’università non si pone più il fine di produrre intellettuali, ma un “esercito di riserva di lavoratori precari”, nutriti di alte aspettative e pronti a immettersi nel settore del terziario avanzato in ruoli professionali sviliti e servili. Ciò che ora bisogna comprendere è che i tagli del duo Tremonti-Gelmini sono solo l’ultima concretizzazione di un processo di frammentazione del sapere funzionale ad una trasformazione della società in senso antiegualitario e oligarchico. E’ in corso un processo che modifica concretamente la trasmissione dei saperi per legittimare uno sfruttamento sempre maggiore del lavoro “intellettuale”, che, si capisce, si lascia maggiormente sfruttare se si fonda su un “sapere” disorganico e superficiale: chi, durante il proprio percorso di formazione universitaria, non riesce ad acquisire una visione completa e profonda del proprio ambito di studi, è maggiormente sfruttabile, ricattabile, trascinabile in un ruolo lavorativo esente da ogni responsabilità e riflessione generale.

Le società occidentali, e in particolar modo quella italiana, sono attraversate da un processo imponente di chiusura ed esclusione: le leggi sull’immigrazione, che tendono a creare un esercito di lavoratori disposti a tutto per il pane e quindi schiavizzabili poiché messi nella condizione di non poter rivendicare alcun diritto (sono già “criminali” per il solo fatto di essere immigrati) vanno nello stesso senso dello smantellamento della contrattazione collettiva dei contratti di lavoro, inoltre, dal punto di vista “simbolico”, servono ad impedire una saldatura di un blocco sociale che possa contrastare le oligarchie economiche e mafiose. Lo strumento di governo della nostra società diviene sempre più quello di mettere i poveri contro i più poveri, gli emarginati contro i più emarginati. Il sapere critico subisce in questo momento la stessa forma di esclusione; smantellare l’università pubblica si inserisce in questo progetto a lungo termine.

E’ per questo che oggi il movimento studentesco deve radicalizzarsi. La protesta contro i tagli deve svilupparsi in una presa di posizione sulla società nel suo complesso. Ma questo deve avvenire senza leaders e senza identità precostituite. Ogni gruppo in movimento, nel proprio ambito di studio, deve ora interrogarsi su quello che rivendica come “il proprio futuro”. E’ necessaria, in questa fase, la massima autorganizzazione, la più completa acefalia: nessuno, infatti, in questo momento ha risposte definite e generali. Per esempio: gli studenti di giurisprudenza devono iniziare a capire cosa il sistema giuridico chiede al loro “sapere”, mentre il diritto si trasforma per lasciare sempre più impuniti i potenti e criminalizzare ogni forma di devianza; gli studenti delle facoltà scientifiche devono interrogarsi sul potere dei gruppi economici nella definizione delle applicazioni tecniche della scienza; gli studenti di medicina devono interrogarsi sull’idea di malattia, su come questa possa essere soggetta a molteplici interpretazioni, delle quali oggi il potere incondizionato delle lobby farmaceutiche-baronali privilegia quelle più inumane, orientate solo ad estorcere soldi e paura dai “corpi malati” che le contraddizioni sociali producono; gli studenti di psicologia devono interrogarsi sul concetto di “normalità” in base al quale i DSM valutano la malattia mentale, sulle forme legalizzate di droghe farmaceutiche che svuotano la contraddittorietà dell’esperienza personale per renderla mero fatto neurofisiologico, “curabile” con una pratica che si fonda più sulla “neutralizzazione” che sulla comprensione; gli studenti di “beni culturali” dovrebbero interrogarsi sul ruolo che la cultura ha nella società; gli studenti di pedagogia dovrebbero interrogarsi sulle pratiche di esclusione e umiliazione che la scuola pratica per sua natura su certe fasce della popolazione; gli studenti di sociologia dovrebbero denunciare le menzogne intrise di buonismo che, in bocca agli uomini politici, giustificano scelte razziste, violente e discriminatorie; gli economisti dovrebbero chiedersi come mai il nostro sistema produttivo, cullato per trent’anni dalle sirene del liberalismo, non è riuscito a trovare nessuno che mettesse in guardia governi e poteri economici rispetto alle possibilità della grave crisi di sistema che stiamo vivendo e che nessuno di noi vorrebbe pagare; gli studenti di giornalismo dovrebbero chiedersi qual è il futuro che chiedono ad un sistema dell’informazione fondato sull’autocensura e la superficialità.

Questi sono solo degli indirizzi generali, degli spunti, che ognuno dovrà elaborare autonomamente a partire dalla propria esperienza e dal senso di responsabilità che questa mobilitazione ha fatto rinascere. Perché questa è la grande novità: gli studenti nelle università, su cui è stato scaricato il costo di scelte economiche e politiche fallimentari, hanno alzato la testa, hanno detto no. Questo è ciò che gli studenti sono ancora in grado di fare, a differenza degli immigrati criminalizzati, dei diversi psichiatrizzati, dei poveri costretti a sentirsi in colpa per la loro povertà. Oggi, nella voce degli studenti che giustamente rifiutano ogni identità di una politica da cui si sentono lontani e manipolati, può riecheggiare il riscatto di ogni oppressione. Questo significa radicalizzarsi: comprendere che lo smantellamento dell’università pubblica è solo un fase di un processo di evoluzione della società verso esiti autoritari e opprimenti. Quindi, ciascuno attorno e sé ricostituisca quello spazio pubblico che la propria responsabilità vuole abitare. L’onda non si ferma.

L.N.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

E' proprio questa la radicalizzazione in cui credo. Andare a piccoli passi verso le radici del contestare. Ci siamo appena svegliati da una lunga 'ginnastica d'obbedienza'.E credo che il NO tante volte urlato significhi anche il rifiuto di continuare a persistere in quello stato di minorità cui
lo stesso ambiente accademico spesso ci ha costretto.
Quella minorità che ci impedisce di decostruire, decodificare e rappresentare in maniera simbolicamente efficace e persuasiva le ambiguità e i paradossi odierni.
Su tutti, quello che percorre in maniera ironica e tutta da interrogare uno dei pochi fili che legano il '68 e il '77 ad oggi.
La creatività attualmente è al potere, come il desiderio. Addirittura non solo il personale è politico-mediatico, lo è la stessa esistenza biologica, la vita e la morte.
La nostra, scrive Foucault, non è la civiltà del controllo, ma del controlo - stimolo.
E non solo nel senso generale mediatico-consumistico.
Perché anche ogni normalizzazione, giuridica, psicologica, culturale o quant'altro è proprio quella 'contesa' o 'guerra' di cui parli, tra miriadi di funzionari, giudici, esperti, poveri cristi....
Un arcipelago microfisico di 'piccoli potenti' e poveracci.
Che diventano delatori consapevoli o involontari dell'altrui mancanza, scarto o devianza.Che si adeguano, tacciono girando la testa altrove o pippano cocaina per reggere i ritmi di produzione. Per un semplice desiderio di sopravvivenza, per uno straccio di aumento, per un frammento di gratificazione.
Perché tanto va così e voglio star solo con i cazzi miei. Piccoli o grandi infimi sottili desideri. Stonati, strindenti. A pelle, però. Quello che non sappiamo fare è rendere rappresentare, raccontare quel controllo.Sappiamo urlarlo,sputarlo, non stanarlo.
Al massimo usiamo categorie che sanno di muffa.
Siamo spaventosamente deboli in quanto a strumenti teorici e pratici nell'analisi del reale.
Ci hanno sfilato dalla testa le parole, e soprattutto l'arte di narrarle. E' ora di riprendercele.
Scavando con le unghie nei paradossi dei saperi, e quindi contro quello che siamo stati sinora. Contro noi stessi.Difendendo il pubblico denunciando al contempo la pervasività normalizzante dello stato sociale, ad esempio.
Da quella 'ginnastica d'obbedienza', scriveva de Andrè, occorre fare molta strada, una volta svegliati. Per arrivare ad 'un gesto molto più umano, che ci dia il senso della violenza'.
E soprattutto bisognerebbe farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che NON CI SONO POTERI BUONI.Buona lotta.

Anonimo ha detto...

Bell'articolo. Assolutamente d'accordo con la citazione di Foucault di Gabriele, sulla natura dei poteri...

Anonimo ha detto...

Rispettabilissime opinioni e buoni intenti, come spesso si è visto in questo movimento e come spero si possa continuare a vedere in fututo. Ma quanta forsa avrà il movimento se non sarà capace, oltre ad interrogarsi, a proporre un alternativa solida e concreta? In questi giorni si è sentito parlare con forza e determinazione della parola auto-riforma. Ma crediamo veramente che senza una proposta legislativa alternativa a quella di governo si possa ottenere un risultato? Veramente crediamo che solo stando dentro le università potremo riuscire e concretizzare tutti i nostri profondi e nobilissimi pensieri? A mio avviso (e a questo continuerò a lavorare ancora) serve senza dubbio una proposta di legge che venga da NOI. Perchè l'università la viviamo noi mentre la fanno gli altri. Impegnamoci su questo e potremo costruire un processo alternativo al pensiero unico che stà imperando nel nostro paese.

Unknown ha detto...

Cari amici, la CRISI di SISTEMA , (vedi in )
http://www.egocreanetperu.com/BEYOND-PROMETHEUS-MANAGEMENT.pdf
non e solo un problema economico di liquidita' monetaria, e non solo un problema di quantitativo della relazione tra produttivita' e vendita mercantile, ma e' essenzialmente un problema culturale determinato dal passaggio epocale tra la societa industriale e la sua suddivisione del lavoro nazionale ed internazionale e la futura societa ed economia della conoscenza. La crisi contemporanea quindi non si risolve con politiche restrittive che ricorrono a logiche territoriali finalizzare a “Salvare il sistema” cercandone una sostenibilita' locale di breve prospettiva, ma nella capacita di un profondo cambiamento culturale e sociale che vede la crisi come opportunita di sostanziale cambiamento sociale ed economico. Cambiare il sistema non significa salvarlo con una visione del futuro offuscata da vecchie concezioni del mantenimento della societa basata su lo sviluppo meccanico e sullo sfruttamento della energia calorifica.
Abbiamo bisogno di un un cambiamento ben piu' radicale , capace di cambiare innanzitutto i contenuti della educazione e della formazione Universitaria , per poi incidere sul cambiamento delle prospettive essenziali e globali dello sviluppo produttivo sociale ed economico .
A cio serve la CREATIVE CLASS NET come fulcro e fucina di idee innovative basate sulla creativita di chi non si riconosce piu nelle politiche obsolete della casta di coloro che scimmiottano la politica di sempre essendo incapaci di capire la necessita di lasciare spazio a chi non sostiene piu il revisionismo parolaio capace gattopardisticamente di promettere il cambiamento per mantenere la loro posizione di potere. paolo manzelli 14/FEB/09